Notturno – recensione


Dopo tre anni di lavoro fra Iraq, Kurdistan, Siria e Libano, il regista Gianfranco Rosi, già Leone e Orso d’oro, racconta le conseguenze dei conflitti sulla gente. Un racconto tra l’umano e il disumano, il bello e il brutto, l’ordinario e lo straordinario, il materiale e lo spirituale, tra il buio e la luce. Un viaggio ai confini, dove è difficile spingersi più in là dell’orrore della guerra, del dolore della perdita, della dolcezza di una madre che accudisce i suoi figli, della crudezza del racconto di bimbi violentati nel corpo e nella mente dall’ISIS. Sono quadri diversi, situazioni apparentemente distanti, ma su tutti c’è il buio, un buio notturno che ha bisogno di essere illuminato.

C’è un cantore di strada, che sveglia la città facendo le lodi a dio; ci sono le guerrigliere peshmerga che, dismesse le armi, sono solo donne che si riscaldano al fuoco e riprendono una grazia femminile di aiuto reciproco o di reciproco calore. Ci sono i terroristi dell’Isis che prendono aria nel cortile, smilzi nelle tute arancioni, e stipati lì sono anch’essi oggetto della compassione della macchina da presa. C’è lo sgomento e l’impotenza di una madre che riceve i messaggi vocali della figlia sequestrata dall’Isis. La figura più poetica è quella di un adolescente, che per mantenere i numerosi fratellini, si alza all’alba per fare il manovale su un peschereccio o il “cane da riporto” per i cacciatori al costo di cinque dollari al giorno. Rosi mostra l’orrore per risvegliarci e scrive: “Per farlo mi è stata necessaria la luce del giorno. Tutt’intorno, e dentro le coscienze, segni di violenza e distruzione: ma in primo piano è l’umanità che si ridesta ogni giorno da un notturno che pare infinito”.

Anna Chisari

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