Un ricordo di Giorgio Petrocchi, raffinato studioso di letteratura italiana, scomparso trent’anni fa (1921-1989)
Come si divertivano. Come doveva essere bella la vita di docenti e studiosi quando erano ancora lontani i tempi dell’Anvur, dell’ansia da valutazione, delle piattaforme elettroniche e di tutto quell’oceano di plastica burocratica che ora soffoca e divora quasi tutte le energie, senza lasciare se non poco tempo di lucidità e concentrazione, libera da una opprimente stanchezza, per fare altro. E “si divertivano” non significa che fossero poco seri, anzi: riuscivano a trovare nello studio e nella ricerca quei piaceri segreti, noti solo a chi li coltiva per vocazione e con dedizione, fatti di puro amore e di senso dell’avventura.
Questo viene da pensare ripercorrendo la vita di un uomo come Giorgio Petrocchi, scomparso trent’anni fa, il 7 febbraio del 1989. Uno che conosceva a fondo l’intero arco della letteratura italiana e proprio per questo non si stancava di scoprirla, di indagare fra i suoi secoli, di interrogarsi sui suoi significati per le generazioni presenti, passate e per quelle che verranno, con quel “sentimento di anni irripetibili, sereni nonostante tutto, anche se la coltre del tempo reca con sé rimpianti e mestizie”, come scriveva nella premessa al suo Rinascimento italiano.
Rileggere le pagine dei suoi splendidi libri fa pensare proprio a quei dipinti rinascimentali italiani, in cui una luce d’oro percorre i paesaggi del tramonto, incontrando figure umane e carezzando i loro gesti di gioia e sofferenza. Con intuito paziente, Petrocchi sapeva collegare dettagli e ricostruire le verità nei testi come nelle esistenze dei loro autori, che fossero Aretino o Folengo, Carducci o Leopardi, San Francesco o Gasparo Gozzi. Lo incuriosivano Foscolo traduttore di Saffo come Giovanni Faldella, Giacosa come Silone, e gli stranieri altrettanto: Pushkin, per esempio, di cui firmò una Introduzione al teatro nel 1942. Lo interessava la letteratura regionale: sono del 1948 gli Scrittori piemontesi del secondo Ottocento; era un fine lettore dei mistici, come Angela da Foligno, ma anche dei classici, come Orazio o Virgilio; l’attenzione per Dante, Tasso e Manzoni è continua per l’intero arco della sua attività, conclusa anzitempo e di colpo. Appena prima della morte improvvisa era intento a preparare una lettura radiofonica della Commedia.
Il suo archivio, accuratamente custodito dalla figlia Francesca, che ha seguito l’esempio e il lavoro del padre, contiene molti inediti e un vastissimo epistolario, con scambi di opinioni, ragguagli, idee, in lettere fra Petrocchi e Gianfranco Contini, Corrado Alvaro, Giuseppe De Robertis, Maria Corti, Luciano Anceschi, Giuseppe Dessì, Vittore Branca (solo per citare i nomi più conosciuti).
Lettere piene di intelligenza, di confidenza e di fiducia, se una grande studiosa gli confessava “Mi farei coraggio e affronterei la vita della pensionata. Non c’è altro modo di lavorare in pace”, e ancora, in un altro passaggio: “Se prima o poi mi deciderò, in un testo estemporaneo, a tracciare un quadro della vita universitaria italiana, la materia non mi mancherà certo; per ora, colleziono impressioni”.
Se questi quadri venissero tracciati, se fra le carte ancora inedite di Giorgio Petrocchi si scoprissero memorie di quegli anni, si proporrebbero ai nostri tempi – avvolti in un sonno inquieto – come testimonianze di impegno civile oltre che culturale, ma soprattutto spirituale, quello di cui forse oggi abbiamo più bisogno.
Diego Malaspina