I racconti delle scale – 160 mq


I Racconti delle scale sono le parole di un condominio. La narrazione degli abitanti di un palazzo semiperiferico, che si animano per descrivere la propria casa, la propria vita dentro la casa. Sono la casa e la vita che si mostrano come facce della stessa medaglia in un intreccio di corridoi e sospiri, di living e aspirazioni, camere da letto e amori finiti. Sono le voci di chi abita l’edificio o lo ha abitato, le voci delle abitazioni e dei loro spazi. I racconti si intitolano con il numero dei mq della casa e le scale sono le connessioni e le interdipendenze. Le case sono piccoli mondi dove tutto succede e tutto si compie,  espressioni profonde di chi ci vive e le pensa. Una casa sa del proprio inquilino più di quanto il mondo possa immaginare.  E’ una costruzione di 20 appartamenti con la portineria e un laboratorio trasformato in una piccola casa. I protagonisti si raccontano e si intrecciano, si incontrano, si scontrano, non si vedono. E’ un universo complesso e variegato di uomini e donne che soffrono, amano, vivono e gioiscono. Uomini e donne che occupano un luogo che li rappresenta, li rinchiude e a volte li uccide. Case come specchi e specchi come megafoni dell’IO. Sono racconti della lunghezza di una cartella che illuminano un momento, una tristezza, una gioia, un dolore, una vita, una morte. Da oggi, ogni mercoledì saranno pubblicati su rabdo.blog.

Buona lettura

160 mq

Abito qui da quando il palazzo è stato costruito. Mio padre era il costruttore e io ho scelto questo appartamento sulla carta. Ho visto la mia vita fiorire dal progetto in bianco e nero. Ho immaginato pranzi allegri, bambini vocianti e mio marito sulla porta d’ingresso che mi salutava in un mattino nebbioso. Ho scelto tutto io, i pavimenti, il parquet, la carta da parati e le ceramiche dei bagni. Bruno si fidava di me, del mio gusto, delle mie scelte. Bruno era un uomo buono e gentile e mi amava molto, anch’io lo amavo, mi piaceva la sua finezza, la sua signorilità, la sua passione per i francobolli e le lenti d’ingrandimento. Vivevamo bene nel nostro grande appartamento. Mi piaceva che fosse lucido e splendente, pulito e odoroso, ordinato e confortevole. Nelle sei stanze tutto aveva un posto, tutto si coordinava perfettamente alle nostre vite. Le cameriere sapevano che ero implacabile, controllavo i loro gesti e il loro lavoro come un generale che ispeziona una caserma. Le equipaggiavo di qualunque cosa potesse servire loro a pulire, sgrassare, lucidare, rendere ineccepibile la mia casa con il lungo corridoio e i balconi in stile liberty che si affacciavano sul viale alberato.  E loro rispondevano ai miei ordini senza replicare, cercando di fare del loro meglio. Loro erano le mani e io la testa. Avevo fatto un calendario dei lavori a cui bisognava rigorosamente attenersi. Il lunedì era dedicato al salotto, le belle librerie in noce e i divani color panna dovevano essere ribaltati e spolverati, i libri, compresa la Treccani, andavano aperti e passati con un panno morbido. Il martedì si faceva il bucato e si cambiavano le lenzuola, nella stanza degli armadi che odorava di ammorbidente e appretto la cameriera stirava e riponeva nei cassetti e dentro le ante che avevano un ordine preciso e logico. Gli abiti con gli abiti, i pantaloni con i pantaloni, i cappotti con i cappotti, c’erano spazi per me e spazi per Bruno. Con gli occhi chiusi e a luce spenta chiunque avrebbe potuto trovare ciò che cercava. Il mercoledì era la volta della camera da letto e della camera da pranzo. Le due stanze con i mobili lucidi fatti a mano dagli artigiani della ditta Ferretto venivano spostati e strofinati in ogni singola parte, la polvere era bandita e il Pronto casa era l’arma letale. Il giovedì si metteva mano allo studio di Bruno, la grande scrivania con il piano di opaline verde e gli oggetti che vi stavano sopra non potevano essere toccate, ci pensava mio marito al ritorno dall’ufficio il giovedì sera a pulire il piano, il tagliacarte, il porta penne, la cassettiera e quando era apparso il computer, la tastiera, lo schermo, il mouse. Il venerdì era il momento della cucina, del tinello e dei balconi. Tutto lustro e senza macchia si affrontava il fine settimana tra inviti, pranzi al mare e feste danzanti. Una agenda che rendeva il mio regno inappuntabile da ogni punto di vista. Io e Bruno siamo stati felici, anche se le mura del corridoio non sono mai state impiastricciate dalle manine sporche di bambini. Non abbiamo avuto figli, il nostro unico bimbo è morto dopo tre giorni dalla nascita. Lo abbiamo chiamato Ezio come mio padre. Ci siamo disperati nel vedere la piccola bara bianca calare dentro la tomba di famiglia. Ci abbiamo provato ad averne altri, ma non sono arrivati. Io sono stata la bambina di Bruno e Bruno è stato il mio bambino. Ci siamo coccolati e protetti tutta la vita. Abbiamo giocato e riso. Ci siamo consolati e giustificati. Quando è morto Bruno la casa è diventata immensa, niente più feste, niente più nipoti, niente sciabattare lento di mio marito nel corridoio tappezzato di stampe antiche.  Ho installato una poltrona nel tinello, comprato una grande televisione e ho fatto scrivere ai miei nipoti i loro numeri di telefono su un cartello che hanno appeso vicino alla TV. Rosa, l’ultima cameriera, ha continuato a seguire il calendario, ma le stanze ora sono porti in cui nessuno approda più e il campanello della porta suona sempre meno. Un giorno la mia testa si è confusa, ho cominciato a ripetere le stesse parole, non ho riconosciuto i miei nipoti, ho inseguito Rosa che mi sembrava fosse un ladro. Non ho capito più niente. Non ho più voluto sentire niente. Non avevo voglia di niente. Per me tutto si è fermato. Tutto ha smesso di esistere. E ora che ho raggiunto Bruno, mi chiedo se ci sarà ancora qualcuno che seguirà il mio calendario. Le mani che frugheranno avranno lo stesso amore che io ho avuto per le mie cose? Qualcuno noterà la luce verde in salotto all’ora del crepuscolo?

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