Se importassero a qualcuno le definizioni letterarie (oh che categoria ormai desueta), bisognerebbe dire anzitutto che questo non è un semplice testo ma un iconotexte, come dicono i francesi che se ne intendono. Tradurlo con “iconotesto” è un po’ goffo; “testo iconico” ancora peggio, anche perché sarebbe impreciso. “Fototesto”, poi, è fuori discussione. Eppure un nome bisogna darglielo, bisogna trovarlo, perché si tratta di un libro che prevede anche le immagini: un libro con delle illustrazioni (che stanno da un’altra parte, precisamente qui https://bit.ly/2uy3MsP ), via, che è la cosa migliore, che fa pensare alle fiabe, a tutte le cose belle di una volta che poi nella vita ci mancano. Perché le fiabe avevano sempre un lieto fine, tranne quelle di Andersen, forse, che però comunque, e misteriosamente, abbiamo tanto amato e amiamo ancora così tanto, noi con quel senso un po’ cupo e della vita, ma sarà per questo che poi facciamo tanto ridere gli altri? Anna Chisari è così. Sa trasformare in sorrisi e risate matte ogni dettaglio della vita, della tristezza o della morte. È un suo grande dono, riconosciuto da tutti quelli che possiedono il privilegio della sua amicizia, ma anche solo di una sua frequentazione superficiale (non si concede mica a tutti, lei). E io la conosco, sapete? Potrei fare il remake di Io la conoscevo bene o Due o tre cose che so di lei, ma diventerebbero subito due o trecentomila, e ne verrebbe fuori un’epopea tipo Heimat 5 e per l’amor di Dio le precedenti edizioni di quel teutonicissimo capolavoro bastano e avanzano a far addormentare eserciti di insonni incalliti.
Anna Chisari ha una preziosa e sopraffina ironia, che nasce da un senso profondamente doloroso della vita, perché sa bene cosa sono la malinconia, la sofferenza e la malattia. Ma proprio per questo è lieve come la piuma di Forrest Gump e sa librarsi sulle faccende del mondo con la disinvoltura di un falco che ha individuato la sua preda a un chilometro di distanza: che sia una gallina o un coniglietto, lei lo vede dall’alto e sa dove puntare; questa volta ha fissato il suo sguardo su una minaccia mortale. Mi fanno impressione quelli che li chiamano problemi. Fa così borghese. Così superficiale. No, cari miei, i problemi sono altri: il mutuo, l’indigenza. I contratti di lavoro in scadenza. Sulla salute non si scherza e non si possono trovare, a questo proposito, termini attenuativi o circonlocuzioni. Questo è un percorso (peraltro lungo) attraverso la sofferenza fisica, quella vera, e la paura del domani, di un qualunque domani, ogni giorno, per tanti giorni, per ore innumerevoli, per notti che non finiscono mai. E la possibilità che finiscano è l’incubo peggiore. Questa storia, ve lo dico subito a costo di fare spoiler, è a lieto fine, per fortuna (anche perché altrimenti non avrebbe potuto raccontarcela fino alla fine). E sarà importante per tutti coloro che passeranno o sono già passati per lo stesso calvario.
Le immagini di Anna, quanto le sue parole, raccontano tutto ciò che lei ha vissuto, ma prima di questo tutto, esprimono il suo indomito coraggio, il sorriso che ha regalato a chi le chiedeva “Come stai?”, la frase meno evitabile che gli amici possano pronunciare, la domanda più automatica che ci sia, e nello stesso tempo quella a cui trovare una risposta è più difficile. “Stiamo come stiamo”, cantavano le sorelle Bertè. Cos’altro si può dire? Questo libro è una risposta plausibile ed esauriente a quell’interrogativo.
“Voglio scappare e sono sola. Con il mio corpo fermo e il freddo nel cervello” dice a un certo punto della sua storia, e in un altro punto dice “Devo fare qualcosa, devo mettere fine alla telenovela medica che mi vede attrice non protagonista”. Ma verso la fine dice anche “Sono una veterana. Ho fatto la mia guerra”. Trova perfino il tempo di preoccuparsi per i cinghiali che hanno distrutto le sue piante, perché le persone autentiche sanno quanto siamo indistinguibili da tutto ciò che ci attornia, che è un prolungamento di noi, che rappresenta noi nel mondo, anche se tanti lo dimenticano. Questo libro insegna a essere consapevoli e partecipi della vita che circonda la nostra piccola vita, proprio quando la malattia sembra volerci allontanare da tutto quello a cui apparteniamo davvero, bello o brutto che sia, appagante o terribile. Anna dice una cosa squisitamente femminile: “I capelli sono importanti, molto importanti”. Un’altra amica che li perse, temporaneamente – per fortuna – ma per lo stesso motivo di Anna – purtroppo – mi disse proprio questo: “Dimentichi anche il pericolo di vita, per il dolore di perdere i capelli”. Gli uomini ci sono abituati, fa parte della loro natura, le donne no. “I capelli sono le speranze”, mi aveva insegnato anni fa una donna sapiente, di quelle che conoscono le simbologie corporee (tipo: i piedi sono la conoscenza, e altre cose del genere, tutte bizzarre quanto illuminanti).Gli uomini sono abituati a perderle, le speranze: fa parte della loro natura; le donne no. Forse per questo gli uomini hanno così poca dimestichezza con i sentimenti, ma nel 2018 stiamo ancora qui a parlare di “donne” e “uomini”? Andiamo! Devo cancellare tutte queste ultime righe e farlo anche in fretta, per lasciarvi ascoltare la voce di Anna, l’unica che deve essere ascoltata qui, perché intende narrarci una fiaba anderseniana che però finisce bene, cosa di cui abbiamo un gran bisogno, perché – vorrei concludere con i versi di un poeta senza farne il nome – “Che immensa forza c’è nel credere / la speranza e l’attesa hanno il potere della notte / e l’orgoglio e il disprezzo dell’alba insofferente”.
Massimo Scotti