La Maga del Fuoco


Da giovane era stupenda. C’erano vecchi ritagli di giornale, incorniciati nel suo studio, con fotografie di una ragazza bionda, anni Sessanta, in tutto simile a certe attrici o cantanti della swingin’ London. I titoli inneggiavano alla Maga del Fuoco. Perché lei ti faceva i fuochi, prima ancora di fare le carte come le fattucchiere che disprezzava. “Quello son capaci tutti”, diceva. Pare che fosse andato a chiederle un consulto anche il principe Ranieri di Monaco. Sono tante le leggende che circondano Nascia Prandi, morta in uno dei primi giorni di marzo a Clivio, dove si era ritirata da qualche tempo; ma a me diceva sempre “Guarda, me ne vado a Tenerìff, chiappe al sole, e vadavialcü a tutto il mondo”. Poi, se pronunciava in tv la parola “pipì”, si scusava per la volgarità. Nello studio non era molto diversa da come appariva a notte alta, su Antennatre. Gli stessi abiti vistosi e un po’ fané, che testimoniavano un passato scintillante ma erano ormai perpetuamente in lotta con le tarme. Amava i completi animalier, si giaguarava spesso, prediligeva gli inserti in scimmia che poi le facevano il solletico al naso: “Uh questi francesi!” sospirava con finto fastidio per far capire al pubblico che indossava sempre firme famose, e straniere. Non ne azzeccava una. Diceva di essere infallibile, ma c’è da dubitarne. A un’amica che accompagnai da lei disse “Quest’uomo non ti sposerà mai”. Si sono sposati e hanno un figlio. A un altro amico: “Tua madre non ha niente. Puoi stare tranquillo”. La signora morì un mese dopo. Eppure in tv la ringraziavano sempre, e lei sosteneva di avere un libro con tutta una serie di testimonianze che alimentavano la sua fama di “veggente e sensitiva”, come si definiva. Anche lo studio era sempre pieno di signore che stavano ad ascoltare per pomeriggi interi i suoi monologhi, in attesa di essere ricevute nel cuore del suo tempio da sibilla, uno stanzino ingombro di carabattole, con una scrivania. E la scrivania aveva un cassetto basso e oblungo, che si apriva furtivamente alla fine della seduta, per inghiottire il nuovo obolo: era stracolmo di biglietti da centomila lire, perché l’offerta era libera, sì, ma fissa. In televisione faceva consulti gratis, l’audience era alle stelle, i minuti correvano veloci e carissimi, ma era un tale privilegio prendere la linea che si stava ore a sentirla parlare, in attesa che concedesse la sua pigra attenzione: “Chi sei? Da dove chiami? Fammi una domanda”. Le domande erano le solite, lavoro salute soldi amore, ma di cos’altro è fatta la vita? Rispondeva con astio, strapazzava i postulanti, raramente accendeva speranze, più spesso dava tremende notizie in diretta. “Tuo marito ha un’altra, lascialo”. “Corri subito dal medico, vai, ho detto subito, stanotte, sì, stanotte”. “Ti vedo malissimo, cara”. Trattava con garbo e nostalgico affetto una sola cliente, la Teresina di Magenta. Lei trovava la linea almeno una volta la settimana, confermava sempre le sue profezie, si dilungava a parlare con Nascia come con un’amica di vecchia data. Se non le eri simpatico, ti sbatteva il telefono in faccia. Appena ho saputo della sua morte ho cercato in rete, dove si possono trovare lunghi brani delle sue trasmissioni. Sono rimasto incantato come una volta: era un’attrice superba, guardare per credere. I suoi discorsi stanno a metà fra Gadda e Testori, con un tono generale da Alessandra di Licofrone: “Uh quante cose avrei da dirvi, quante cose che vedo, come andiamo male. E andremo sempre peggio. Qui ormai è tutto un manicomio”. Non era più quella di un tempo, ovviamente, ma si sentiva ancora bellissima, con un solo difetto. “Scusate, non posso ridere troppo stasera perché sono senza denti”, diceva ogni tanto, fingendo di aver lasciato a casa la dentiera. Ma non la portava mai. Aveva paura del dentista. So di un’altra amica, emigrata a Milano e senza lavoro, che passava la sua vita sul divano in preda alla depressione. L’unico scopo delle sue giornate era l’attesa del programma di Nascia. Cercava inutilmente di trovare la linea, non ci riuscì nemmeno una volta. Per ore, fino all’alba, ascoltava in compenso previsioni cupe ed esternazioni politico-sociali degne di Savonarola. “Dài che ti faccio un po’ ridere, su” diceva a qualche poveretta che aveva appena distrutto psicologicamente. Azzardava battute, ma la sua vera comicità, incontrollabile, era del tutto involontaria. Mostrava i suoi dipinti e leggeva le sue poesie. Recitava invariabilmente il suo mantra: “Un po’ d’amore può unire tutta l’umanità in un unico, immenso, grande abbraccio fraterno”. Non sapeva di citare Proust, con quella triade di aggettivi in calando.Sono sicuro che ci mancherà. A modo suo era sensazionale. La immagino avviarsi sui sentieri dell’eternità, avvolta nella sua pelliccia rosa e nelle sue nuvole di parole, ultima rappresentante di una tradizione mantica sopravvissuta al tramonto degli oracoli. Tutte le altre, come diceva lei, erano solo sue imitazioni. “Queste maghe maghelle, mi fanno ridere! Non andate a farvi pelare dai cartomanti, che vi dicono solo balle e vi rubano i milioni. Io sono l’unica, puoi girare tutto il mondo e non ne trovi un’altra come me! Chi c’è in linea? Pronto!”. Metteva giù subito. “Questo mi era antipatico”.

Massimo Scotti

 

 

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