Sono una smart worker, posso lavorare da casa al 100% del tempo, in quanto immunodepressa. Sono una di quelle persone fortunate che non ha perso il lavoro a causa della pandemia. Una lavoratrice il cui lavoro (in parte) è possibile da remoto. Una privilegiata che può svolgere il cosidetto “lavoro agile” in un posto al mare, normalmente vivo in una grande città. Una donna senza figli, che può avere una stanza tutta per sé, che può concentrarsi per otto ore sul proprio lavoro senza doverlo interrompere per accudire pargoli che hanno bisogno di attenzione, per curare figli che con disperazione seguono lezioni in DaD. Sgombrato il campo da da tutto ciò che mi riguarda, voglio riflettere su questo nuovo modello di lavoro, supportato dalla tecnologia che permette modi, modelli e modalità impensabili anche solo dieci anni fa. Lo smart working, che non è affatto, smart, ma che più correttamente bisognerebbe definire home working, o lavoro da casa, non mi piace. Non mi piace per niente. Ne riconosco i vantaggi e qualche pregio. Ma, per me lavorare significa tutt’altro che trascorrere ore davanti allo schermo, in totale solitudine, scambiando con le colleghe e i capi centinaia di mail al giorno, inviandosi migliaia di messaggi, telefonandosi convulsamente, partecipando a riunioni fiume, webinar e conferenze noiosissime. Senza mai vedere nessuno che non sia piatto, di cui non sentirò mai l’odore, di cui non percipirò piccole timidezze, o esuberanti presunzioni, o agguerite invidie. Sono novecentesca, lo ammetto, ma sono a mio agio in ufficio, tra i telefoni che squillano, i colleghi che parlano ad alta voce, la fotocopiatrice che non va, le chiacchiere in corridoio dove si prendono il 50% delle decisioni, le riunioni affollate dove si fa fatica a prendere la parola, la pausa caffè al bar dove il cameriere ti prepara ciò che desideri appena entri dalla porta, lo scambio di idee con i colleghi, la creatività di gruppo, il collega insopportabile ma necessario, la politica tra le scrivanie degna di grandi mediatori.
Mi disturba molto l’idea che il posto della mia vita diventi il posto del mio lavoro. E’ molto bello tornare a casa dal lavoro, togliersi le scarpe, e assoporare quel tempo che nessuno ha comprato, è, altrettanto, bello uscire per andare in ufficio, prepararsi ad affrontare scontri, fratture, disaccordi, idee che non coincidono, ma anche vivere momenti di comprensione, appartenenza, vittoria. Per non parlare, di una serie di cose, che definirei sindacali, che fanno di questa modalità lavorativa, un vero e proprio affare per le aziende, che non devono pagare affitti e in ogni caso non devono occuparsi dei luoghi dove far lavorare i propri dipendenti, che non devono preoccuparsi di tutto ciò che serve al lavoratore: connessioni potenti, computer, telefoni, attrezzature e mobilio da ufficio, che non devono erogare buoni pasto o approntare convenzioni con bar e ristoranti, che non devono pagare straordinari per lavori extra orario svolti a tarda sera o durante i week end, che non hanno obblighi nei confronti di eventuali guasti o disfunzioni degli strumenti. Tutte questioni che, da una mia indagine, pochissime aziende hanno affrontato e risolto a favore dei lavoratori. Qualcuno, obietterà che lo smart working diminuisce il traffico e gli ingorghi nelle città e nelle tangenziali nelle cosidette ore di punta, aiutando così a disinquinare e a rendere più respirabile l’area delle nostre metropoli. Problema centrale della nostra epoca, difficilissimo da risolvere, ma che potrebbe alleviarsi costruendo piste ciclabili, potenziando la rete di mezzi pubblici elettrici e a basso consumo, aumentando e rendendo umani i treni per i pendolari. Per fortuna, come spesso accade a questo mondo, qualcuno sta cominciando a ridimensionare l’effetto “soprannaturale” del lavoro a casa, e qualcuno ha cominciato a denunciare i limiti del modello “lavoro in pantofole”. Così il gigante Google ha deciso, che dal 1° settembre 2021 i dipendenti avranno diritto in automatico a 14 giorni di smart working per lavorare da un paese diverso, ma che per il resto dell’anno dovranno assicurare la presenza in sede. Inoltre, come evidenziato da “Worklife after lockdown”, ricerca condotta per Sodexo da Harris Interactive Institute: “Il lavoro a distanza non supportato da una cultura aziendale adeguata comporta alcuni aspetti problematici. I principali sono la mancanza di interazione sociale per il 44% degli intervistati, difficoltà a collaborare (34%), difficoltà di concentrazione (32%), minore identificazione con l’azienda (32%), difficoltà nel raggiungere un buon equilibrio lavoro-vita privata (32%) e senso di isolamento (30%). Di fronte a queste criticità è fondamentale promuovere l’interazione dal vivo, da considerare una componente benefica per tutte le organizzazioni che oggi sono chiamate ad evolversi e trasformarsi.” Dunque secondo me, il lavoro da remoto utilissimo ed essenziale in momenti di grande difficoltà come quello che stiamo vivendo, deve essere regolamentato e corretto, distribuendo diritti e doveri alle aziende e ai dipendenti, va riproporzionato e riposizionato in un mondo del lavoro che lo prevederà come una delle tante possibilità in cui si possono svolgere le attività. Tenendo ben presente che l’elemento umano e lo scambio tra umani è la condizione irrinunciabile e necessaria per lo sviluppo, l’evoluzione e la trasmissione del sapere.
Anna Chisari