C’erano tempi felici, e perduti, in cui si poteva andare in giro indisturbati per le cattedrali, esplorandone gli angoli nascosti, scoprendo dettagli sconosciuti di quei miracoli architettonici in cui il cervello umano ha dato una delle più alte rappresentazioni di sé. Lo racconta uno scrittore famoso, in un suo famosissimo romanzo che ha ispirato film, musical e anche cartoni animati: Notre-Dame de Paris. L’autore, Victor Hugo, gira da solo “per i recessi delle torri” e trova una parola in greco antico incisa su un muro. Poi il muro verrà intonacato e di quell’incisione non rimarrà traccia, ma, dice il romanziere, “su quella parola fu costruito il libro che segue”.
Forse gli organizzatori dell’imperdibile mostra piacentina (la chiusura è stata appena prorogata al 4 luglio, approfittiamone) pensavano proprio a questo ideando Guercino a Piacenza, tra sacro e profano: far conoscere un grande pittore del barocco italiano avvicinando il pubblico a uno dei suoi capolavori, la cupola del Duomo cittadino, affrescata nel 1626-1627. Ma “avvicinare” non è in questo caso solo un modo di dire: troppo comodo. Come quando si dice che le stramberie di Jeff Koons “dialogano” con i saloni di Versailles (e nonostante il clamore dell’evento, non si dicono un bel niente). Avvicinare, nelle intenzioni dei curatori Antonella Gigli e Daniele Benati – che hanno seguito le idee del rimpianto studioso guerciniano Denis Mahon – significa proprio “portare il pubblico al cospetto dell’opera”. Cioè a pochi metri dalle pareti di almeno una fra quelle migliaia di cupole che di solito guardiamo dal basso e da lontano, sottoponendo i nostri colli a seri sforzi (e facendo fremere di gioia gli osteopati che dovranno poi guarirci da orrende infiammazioni cervicali).
Per una volta, addio agli osteopati. A Piacenza si può giungere fin quasi a toccare gli affreschi. E ci si arriva attraverso un percorso tortuoso e avventuroso che già da solo vale la visita: si sale per antiche scale (160 gradini) nella stretta intercapedine fra il muro esterno e le pareti del Duomo, fino a camminare sopra le cupole, con la possibilità di osservare come sono fatte queste strutture complicate. E alla fine ci si ritrova appollaiati, come piccioni curiosi, su un angusto corridoio a 40 metri di altezza, per fare quattro passi fra le nuvole barocche di Guercino. Ricordando magari quel che diceva Italo Calvino in uno dei brani dedicati alla Leggerezza nelle Lezioni americane: “Per tagliare la testa di Medusa senza lasciarsi pietrificare, Perseo si sostiene su ciò che vi è di più leggero, i venti e le nuvole”.
Il cielo di Guercino è popolato da profeti, come l’atletico Zaccaria in négligé, che guarda assorto verso l’altro, vestito solo di un ampio drappo rosso. Ci sono angeli che occhieggiano sornioni, con sguardi piuttosto demoniaci, e sibille eleganti, in abiti ricercati che fanno sognare l’Oriente come a una festa in costume da Mille e una notte organizzata da Poiret nel primo Novecento. In quattro lunette si narra l’infanzia di Gesù, con la tenerezza e il senso di mistero che avvolge la Nascita fatidica da cui è scaturito il cristianesimo. Il mondo celeste è il paradiso dei veggenti, dove le figure alate sono sorrette dalle nuvole, che fungono da balaustre o da leggii per i cartigli in cui angeli bambini mostrano le parole sacre. Alla levità e al dinamismo della sfera superiore, tutta dominata da una limpida luce azzurra, si contrappongono i paesaggi quasi sempre notturni delle scene terrestri, dove splendono unicamente lune lontane, gioielli sulle chiome delle profetesse, lampi di luce umida sulle labbra dei putti, indaffarati a portare messaggi dalle altezze divine agli umani estatici e travagliati.
Ma l’esposizione non finisce qui: una volta spenti i riflettori sulla cupola c’è da vedere, ancora più da vicino, la sintetica e selezionatissima raccolta di dipinti guerciniani su tela, presso la Cappella Ducale di Palazzo Farnese. Alcuni vengono da altri luoghi emiliani, come Susanna e i vecchioni prestato dal Palazzo della Pilotta di Parma, o il Cristo risorto dalla pinacoteca di Cento (Ferrara). Altri da Genova: la livida Morte di Cleopatra da Palazzo Rosso. Altri ancora da Roma, e sono il magnifico San Matteo dei Musei Capitolini o il celeberrimo, stupendo, ermetico e studiatissimo Et in Arcadia ego di Palazzo Barberini.
Qui il sole è tramontato, una notte nuvolosa si preannuncia. All’ultimo bagliore del crepuscolo, due pastori scoprono un teschio su una pietra squadrata, forse una tomba. Le due figure, di età diversa, sembrano un corpo unico a due tronchi e a due teste, due periodi diversi di una stessa vita; la scritta allude alla presenza della fine, anche in quello sperduto Eden arcaico dove regna l’armonia fra l’uomo e la natura. “Io sono anche qui”, dice la morte. L’azzurro aereo delle vele nella cupola del Duomo si è trasformato in un indaco profondo e nostalgico, di quella nostalgia per l’antico e l’epoca classica che rende così drammatica e intensa l’arte di Guercino.
Massimo Scotti
Guercino a Piacenza, tra sacro e profano.
Cattedrale di Piacenza (Piazza Duomo), Palazzo Farnese (Piazza della Cittadella, 29)
4 marzo – 4 giugno 2017 (prorogata al 4 luglio)