Ci sono quelli che dicono “Ah io non ho neanche il televisore”, alteri e sprezzanti. Li aspetto al varco, pensando al famoso amico di Nanni Moretti in Caro diario. Fa l’eremita a Lipari, senza tv, ma quando poi gli capita di vedere Beautiful in un bar diventa subito teledipendente e corre dietro ai turisti americani per scoprire chi è il padre del figlio segreto di Sally Spectra. Ma ci sono anche quelli che mi stupiscono ancora di più: “Io non guardo il festival di Sanremo” o peggio “Non ho mai visto il festival di Sanremo”. E cosa hai fatto, di grazia, in tutti questi anni? Come lo hai passato, questo tuo tempo che fugge? Ovvio che la domanda vale per i rappresentanti delle mie generazioni, dagli anni Cinquanta del Novecento in poi: ai giovani, poveracci, è mancato tutto, non solo Sanremo. Non hanno memoria di Mike Bongiorno, di Giocagiò, del bambino di Furia, di Happy Days, di Canzonissima, della Carrà. Pensano che Rischiatutto sia un’invenzione di Fabio Fazio e che Iva Zanicchi sia una politica dal nasino all’insù. Anzi non sanno nemmeno chi sia, la Zanicchi.
Io vi dico solo questo: ragazzi, cosa vi siete persi.
Non saprete mai cos’è stata Gigliola Cinquetti che tremula gorgheggiava “Non ho l’età / per amarti” ed era davvero bambina: a 16 anni vinse Sanremo, e due mesi dopo anche l’Eurofestival. Era il 1964, e nel 1966 vinse di nuovo con Dio come ti amo, ma se non avete mai sentito Alle porte del sole non potete capire cosa sono in grado di fare, nella mente di un paroliere dotato di talento, le sostanze psicotrope.
Se non avete mai visto Sanremo non potete neanche immaginare il vento di rivoluzione che soffiò nei nostri tinelli marròn quando Sandie Shaw cantò scalza. E nemmeno l’entusiasmo per il cantante cieco, il conturbante esotismo di certe dive straniere (le zie audaci: “Beh sarà anche negra ma ha una bella voce”), lo scandalo della spallina che cade a Patsy Kensit, lasciando intravedere una tettina, peraltro pendula.
Non potrete sapere come fu profonda l’autocoscienza ontologica suscitata da Antoine che cantava “Tu lavorri e ti tirrano le piettre / non fai nionte e ti tirrano le piettre. / Quallunque cosa fai / dovvunque te ne vai / tu sempre pietre in faccia prenderrai”.
Se non conoscete il festival dei tempi d’oro non potrete mai capire come fu che un semplice aggettivo possessivo divenne più porno dell’intera cinematografia di Rocco Siffredi, quando Jula de Palma sussurrò Tua davanti a milioni di spettatori maschi in preda a satiriasi, sotto gli occhi di consorti cotonate e furibonde.
Certo sono anni lontani. A scorrere l’elenco odierno dei partecipanti al festival si sente l’alito sinistro del vuoto pneumatico e prende la malinconia.
Stupito di non trovare fra i big del prossimo Festival dei Fiori anche le mie vicine di casa, che cantano benissimo facendo i mestieri, passo a domandarmi chi siano questi sedicenti Campioni: metà non li conosco, ed è sicuramente mia la colpa. Chi sarebbero Chiara, Elodie, Raige e Giulia Luzi? Non seguendo i vari talent show, Amici, X-Factor ecc., sono tagliato fuori. Come quando leggo a caratteri cubitali sulle copertine dei rotocalchi, nella sala d’attesa del medico, “Katia ha lasciato Christian”, e non riesco a provare dolore. Mi sento escluso. Chiuso in una gabbia di ignoranza e aridità. Chi sono i due cuorinfranti? Non so niente della loro vicenda, e pur supponendola passionale, rimango indifferente. Invece tanti spettatori saranno felicissimi di vedere fulminee carriere coronate dalle luci del successo, e hanno ragione loro. Però mi chiedo, caparbio: perché Lodovica Comello non si è trovata uno pseudonimo? Pensa davvero che nel suo nome all’anagrafe palpiti l’eco dell’eternità?
Nesli e Alice Paba per me sono Carneadi. E anche Clementino, andiamo: ma non ce l’ha un ufficio stampa? Un curatore di immagine, un name consultant, insomma qualcosa? Che impari da Maria Nazionale, con quel nome semplice ma patriottico, pomposo quanto basta, evocativo eppure credibile.
Per Al Bano, ormai, Sanremo è soprattutto una fuga dalle grinfie della Lecciso. Arriverà al festival snervato, tesissimo, esausto, grato soltanto di poter esplodere con i suoi strepiti. Giusy Ferreri è uno dei miei miti personali, la Cenerentola della canzone italiana, ieri alla cassa del supermarket, oggi sugli spalti internazionali. Le suggerirei soltanto di limitare gli intervalli di quinta che finiscono rauchi e che ricordano Judy Garland e sua figlia in fase etilica.
Fra le poche, sincere soddisfazioni, c’è l’attesissimo ritorno di Michele Zarrillo, l’anima di Sanremo se mai ve ne furono: è uno di quelli che per tutto il resto del tempo stanno chiusi in un armadio, come abiti da sposa, in formalina o cosparsi di canfora antitarme. Per un po’ se li dimenticano, poi li tirano fuori, belli, stirati, come nuovi, con la mise da sirena tipo Milly Carlucci se sono donne, o lo smoking d’ordinanza se sono uomini, e fanno sempre la loro bella figura. Devo dirlo col cuore: Michele, ci sei mancato.
Su Gigi D’Alessio il silenzio è carità.
Sui testi delle canzoni, invece, il discorso sarebbe lunghissimo, ma è giusto tentare di impostarlo solo dopo che le melodie li avranno resi indimenticabili.
Mi limito a porre una domanda a questa povera Elodie, e giuro che non ce l’ho con lei. Ma santa ragazza, dovevi proprio rivolgerti a Emma Marrone perché ti facesse da paroliera? Hai visto com’è conciata? Una così non poteva che ideare versi del genere: “Il tempo non cancella / nella mia stanza l’odore di noi / che non passa mai / che lentamente scivola come pioggia su di me / e mi bagna la faccia, lascia un solco perfetto. / Ti sorrido distrutta”. E ci credo, gioia mia, che sei distrutta. Sono già in ansia per la fatica che ti costerà fare quelle pulizie, con il liquame fetente che ti cola addosso.
In ogni caso, come ogni anno, io ogni sera dal 7 all’11 febbraio sarò davanti al video, fiero di averne uno, con il suo valoroso tubo catodico che finora non mi ha mai tradito. Perché per me Sanremo è una ricorrenza, visto che ormai le feste comandate vanno come vanno, la secolarizzazione ha cancellato il nostro senso del sacro e via discorrendo. Che cosa posso farci? Devo privarmi di questa minuscola felicità? Sanremo mi fa sentire bambino, mi fa regredire, mi riporta al verde paradiso degli anni Sessanta, e poi dei Settanta, e anche Ottanta, quando come un mistero aleggiò in un cosmo muto la voce di Antonella Ruggiero in Vacanze romane: “Tu / con il cuore nel fango / l’oro e l’argento le sale da tè”.
Aspetto con gioia pochi, fra cui Paola Turci e Fiorella Mannoia, ma quanta nostalgia per le belle baraccone del tempo che fu, quando le attese erano ben altre: come si vestirà Marcella Bella? Sarà in grado di salire sul palco la Bertè?
Ma ve la ricordate, Patty Pravo vestita da geisha, con una treccia lunga fino ai piedi, quando riemerse dalle sue lontananze astrali e si presentò a Sanremo, nel 1984, con Per una bambola?
Incauto, Pippo Baudo, che la presentava, osò dirle: “Cara Patty, speriamo che questa tua apparizione qui al festival dopo tanto tempo non sia soltanto una parentesi”. Lei algida, superna, mosse appena il ventaglio alto un metro e domandò: “Ti sembro una parentesi?”.
A proposito di stelle (cadenti), penso sempre, in segreto, alla povera Anna Oxa che ha ciccato due apparizioni su due agli ultimi festival: con tutte le sue sulle energie cosmiche, dopo due catastrofi di vendite, avrà ancora i soldi per pagarsi le bollette della luce? Nella nostra memoria Nilla Pizzi buon’anima intona ancora, e intonerà per sempre, “Grasie dei fior / fra tutti li altri li ho riconosiuti”, in un turbine di tulle argentato, con inconfondibile accento di Sant’Agata bolognese.
Massimo Scotti