Pronto, Raffaella?


Lei era sempre allegra, io sempre solo.

Lei volteggiava nei suoi palazzi luccicanti, io me ne stavo un po’ scagnuffo, come dicevano mamma e papà, nel nostro tinello marròn, dopo cena, con su un pigiamino Ragno che non mi piaceva mai. Però certi sui abiti erano attillati come il mio pigiamino, notavo con un certo compiacimento, sempre piuttosto amaro.

Non la apprezzavo neanche più di tanto, stava là come un elettrodomestico, la accendevi e lei cantava, rideva, presentava, faceva di tutto, ogni sabato sera, c’era e basta. Stava sempre con noi, era fatta per noi, come un gatto di casa, se non c’era lei non era sabato, non era varietà, tutti gli altri programmi al confronto sembravano storie per orfanelli.

Se appariva lei tutto splendeva e si animava, sprigionando quella sensazione di cui parla Billy Elliot a proposito della danza: “Quando ballo io mi sento… Non lo so dire come… Energia, forse, ecco… Energia”.

Ma non ci provavo nemmeno, a imitarla. Lo lasciavo fare a certi altri bambini sguaiati e goffi, incapaci, perdutamente ridicoli.

Come fai a imitare il fuoco? Specialmente quando sei rachitichino, per niente agile, e anche afflitto dalle febbri reumatiche. Stai lì a guardarla, ti senti un niente. E stop.

Anni dopo, tanti anni dopo, una straordinaria scoperta: in tutti quegli anni non ero mai stato solo. Ma proprio per niente. Innumerevoli bambine e bambine avevano guardato Raffaella Maria Roberta Pelloni, in arte Carrà, e questo, pare, proprio in tutto il mondo, per generazioni e generazioni; l’avevano amata anche più di me, con vera devozione, io ero stato soltanto un ammiratore distratto.

Con il tempo e l’esperienza avrei capito quanto era difficile fare i simpatici ogni sera, e provare sempre nuovi passi di danza, coreografie singole e di gruppo, vestiti sempre più matti inventati per lei da costumisti al di là di ogni regola.

Perché guardando oggi certi programmi, ma proprio quelli della pudibonda Rai Nazionale, si capisce come il mondo oggi sia diventato conformista.

Per esempio, lei, emblema della femminilità più tipica e convenzionale – bella, bionda, formosa, gambe sterminate, fianchi generosi, chiappe prodigiose, scolpite da un movimento indefesso – era anche la vessillifera dell’unisex, come si diceva a quei tempi: non vestiva né da femmina né da maschio, ma come gli alieni. Era un UFO. Plastica, veli, argento, follia. Pantaloni, più spesso delle gonne; visiere trasparenti, caschi spaziali, spalline imbottite come quelle dei rugbisti; elmi, ali, tacchi, piedi scalzi, la qualsiasi.

Se ne fregava e ci rideva sopra (quante volte ho immaginato che dicesse ai suoi stilisti “Ragazzi, ma che roba è?”).

E tutto questo lo faceva per divertirci, per farci dimenticare il compito in classe, le bollette, la lezione di ginnastica il giorno dopo, in cui venivo regolarmente umiliato per la mia goffaggine.

E ai miei genitori, come a tutta l’Italia, faceva dimenticare i debiti, la svalutazione della lira, la crisi petrolifera. Guardavi lei, ed era meglio del Valium. Anzi era uno Xanax ante litteram.

Tutto il suo impegno era devoluto a una causa umanitaria, mondiale, globale: infondere allegria, allontanarci dalle tante malinconie degli anni Settanta. Di piombo, di fango, di deriva.

Proprio quando il sogno di progresso del dopoguerra stava ormai tramontando e si sarebbe trasformato ben presto nell’aurora boreale, o fuoco fatuo, del decennio Ottanta: musica, ritmo, magia, e poi il naufragio. Tipo Titanic. Uguale.

Insomma, tanti, ma proprio tanti anni dopo ho visto con questi occhi attoniti decine e decine di ragazzi – i tennisti gay di un raduno internazionale a Milano – cantare a squarciagola tutte le sue canzoni a memoria, e ballare come degli indemoniati. Quindi non ero mai stato solo?

Venivano dal Brasile, dall’Austria, dall’Australia o dal Sud Africa, e niente, ballavano e cantavano tutti le canzoni di Raffaella. Che si chiamava come la mia migliore amica, nata dieci giorni da me e pressoché mia sorella.

Raffaella, un nome che sa di geranio, o confetto, ed è rosso, anzi fucsia, sgargiante, sfavillante, baluginante, un po’ come quello di Rossella O’Hara (e un po’ gli somiglia).

Icona gay? Bah, sì, perché no? Certo lei non lo ha mai sbandierato. È come Virginia Woolf: non ha mai fatto la femminista convinta, sulle barricate, anzi era anche un po’ critica, ma le sue parole, i suoi gesti, i suoi atti concreti o simbolici hanno cambiato un tempo in cui c’erano dei padroni e degli schiavi. Dei padroni e delle schiave. Di ogni sesso, genere, nazionalità, censo.

Credo che Raffaella Carrà non prendesse nemmeno in considerazione certe distinzioni – tutte false, tutte dettate da una Norma assurda e transitoria, che i più furbastri e opportunisti spacciano per incrollabile e irrinunciabile.

Lei si rivolgeva a un mondo composito e sconosciuto che non poteva vedere, perché agiva davanti al volto vuoto, ottuso e anonimo di una telecamera. Sapeva anche lei, in quel momento, di essere sola.

Ma dimostrava la coscienza profonda, la responsabilità di muoversi, parlare, agire ed esprimere opinioni che sarebbero arrivate a un mondo sconfinato, e perseguiva dentro di sé un’idea istintiva di correttezza, che si potrebbe riassumere così: non offendere nessuno.

Anche per questo le sue canzoni risuonano ovunque, nelle feste di paese come ai matrimoni di ogni tipo, nelle parrocchie o al Mardi Gras di Sidney, e fanno ballare vecchi e giovani, bambini, cotechini, suore e meretrici, trans o tutti quelli che non sanno più che sesso avevano all’inizio e cosa sono diventati poi. Fra l’altro, poi: è così importante?

Lei ci credeva; quello che faceva era autentico per lei, cosa che la differenziava da tante sue colleghe e da innumerevoli colleghi, piacioni, gigioni, ruffiani, subdoli. Lievemente loschi.

Credo fermamente che per lei lo spettacolo fosse (benché inconsapevolmente) un atto politico, anche se non sapeva né voleva dare un indirizzo, un’impostazione, a quei messaggi che la sua voce e il suo corpo tramettevano al di là delle parole, e che, a ben guardare, e decenni dopo, equivalgono a una rivoluzione.

Lei rappresentava una cosa molto semplice, e dirlo esplicitamente suona di certo enfatico. Perché è una categoria molto difficile da esprimere, da maneggiare, anche da capire, da soppesare, e se la evochi puoi solo prendere a pretesto un grande nome, che ti difenderà almeno da qualche accusa di banalità.

Quel grande nome è Paul Éluard, e la parola è – la scrivo anche in maiuscolo, tiè – “Libertà”.

Sui miei quaderni di scolaro

Sul mio banco e sopra gli alberi

Sulla sabbia e sulla neve

Scrivo il tuo nome

Su ogni pagina che ho letto

Su ogni pagina che è bianca

Sasso sangue carta o cenere

Scrivo il tuo nome

Sulle immagini dorate

Sulle armi dei guerrieri

Sulla corona di ogni re

Scrivo il tuo nome

Sulla giungla e sul deserto

Sui nidi e le ginestre

Sull’eco dell’infanzia

Scrivo il tuo nome

Sui miracoli notturni

Sul pane bianco dei miei giorni

Le stagioni fidanzate

Scrivo il tuo nome

Su ogni tipo di azzurro

Sullo stagno sole sfatto

E sul lago luna viva

Scrivo il tuo nome

Su pianure e su orizzonti

Sulle ali degli uccelli

E il mulino delle ombre

Scrivo il tuo nome

Su ogni alito di aurora

Sulle onde sulle barche

Sulla montagna demente

Scrivo il tuo nome

Sul vigore ritornato

Sul pericolo svanito

Sull’immemore speranza

Scrivo il tuo nome

E in virtù di una Parola

Ricomincio la mia vita

Sono nato per conoscerti

Per chiamarti

Libertà.

Massimo Scotti

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